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I giorni cattivi finiranno

Distruggiamo tutto quello che ci distrugge – novembre 2010

domenica 22 novembre 2009

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“E quando il lavoratore si addormenta è cullato dall’insonnia / e quando la sua sveglia suona / trova ogni giorno, davanti al suo letto, la faccia schifosa del lavoro / che ghigna e lo sfotteâ€

Un recente bilancio ministeriale precisa che, nello spazio di due settimane (dal 12 al 26 ottobre), quasi 2300 manifestanti sono stati arrestati e 360 mandati davanti a tribunali che distribuiscono a piene mani mesi di prigione. Dalla parte opposta, non ci sarebbero che 72 poliziotti e gendarmi feriti. Se a questa pesante contabilitàsi aggiunge qualche misura simbolica, come l’invio in Place Bellecourt, a Lione, della squadra di incappucciati del GIPN [“Groupes d’intervention de la police nazionale†, teste di cuoio dell’anti-terrorismo della polizia francese, N.d.T.]; il divieto di sciopero per alcuni lavoratori, causa “un’offesa constatata o prevedibile al buon ordine, alla salubritàe alla sicurezza pubblica†; o ancora l’invio dell’esercito a Marsiglia per fermare lo sciopero degli spazzini, è chiaro che viviamo in tempi di guerra.
Bisogna dire che molti di noi non hanno atteso questa legge sulle pensioni per prendere la strada ed esprimervi tutta la nostra rabbia, visto che le ragioni per rivoltarsi non mancano. Da quando cominciamo a respirare l’aria viziata di questo mondo di soldi e sbirri, lo Stato e i ricchi vogliono rinchiuderci nelle loro scuole, nei loro uffici, nelle loro gabbie per polli, nelle loro fabbriche e nelle loro prigioni. Cercano di obbligarci a sacrificare ogni libertàper qualche briciola a fine mese, con un sorriso all’assistente sociale, una riverenza al padroncino. E se trasciniamo troppo lentamente i piedi mentre andiamo ad arricchire i borghesi, ci minacciano di farci crepare a bocca aperta in mezzo alla strada o dietro alle sbarre. Vero è che siamo così fannulloni da osare lamentarci quando si tratta di vendere loro braccia, cervello, sudore e tempo.

Allora, sì, in tutto il casino che succede in strada, da inizio settembre a questa parte, c’è per noi il rifiuto di farcelo mettere in culo per qualche anno in più, prima di finire in un mortorio o all’ospedale, distrutti da una vita persa a cercare di sbarcare il lunario. Ma c’è di più: c’è tutta quella collera trattenuta giorno dopo giorno, tutta la violenza dei rapporti sociali, da sbattere sulla sporca faccia dello Stato e dei padroni. C’è da prendere tutta quanta la rivincita per le mattine quando è ancora buio e ci svegliamo male, per andare a scuola o al lavoro. Tutto il disgusto verso i manganelli degli assassini in divisa o verso i capi che ci imputridiscono la giornata. Quelli del lavoro, quelli della strada, tutti quelli che ci umiliano con il loro denaro, inevitabilmente strappato ad altri.

Ci fanno la guerra, è chiaro, e ne hanno i mezzi. Una guerra sociale fra i ricchi e i poveri, fra i dominatori e i dominati. Però, soltanto così, non andrebbero lontano. In effetti approfittano soprattutto del fatto che ci vendiamo fra di noi, in nome della sopravvivenza, della famiglia o delle ultime cazzate alla moda. In effetti, sfruttano tutto lo spazio che lasciamo loro, standocene zitti, calcolando ogni volta la lunghezza delle nostre catene, non prendendo il rischio di metterci in gioco per batterci e vivere i nostri sogni di una libertàsmisurata per tutti. In effetti, se ne stanno ben al caldo, perché alcuni sognano di prendere il loro posto, mentre altri li ammirano e sperano stupidamente che saranno proprio loro a cambiare qualcosa (pensiamo a tutti i buffoni che si sono rallegrati per l’elezione di Mitterand nel 1981 o di Obama nel 2008). In effetti, non rischiano veramente di sentirsi minacciati finché la maggior parte di noi continueràa consolarsi con false evidenze del tipo: “è sempre stato così†, finché l’autoritànon saràattaccata alla base.
Chi è che delega di continuo la sua vita al Grande fratello, al sindacalista, all’eletto, agli specialisti di ogni genere? Non sarebbe l’ora di prendere in mano le nostre vite, senza capi né organizzazione al di sopra di ciascuno di noi? Chi è che mantiene un rapporto di prossimitàcon degli oppressori, con il pretesto che sono della stessa famiglia, della stessa religione, dello stesso paese o dello stesso quartiere, invece di cercare questa prossimitàpresso i propri fratelli di miseria? Non sarebbe l’ora di gettare alle ortiche tutte queste false appartenenze, queste identitàobbligatorie, per incontrarsi, infine, fra individui, e condividere quello che abbiamo in comune, per batterci e distruggere questo mondo di dominazione e di sfruttamento?

Se ce ne sbattiamo delle rivendicazioni sull’etàdella pensione, di questa elemosina accordataci avaramente prima delle morte, è perché critichiamo un mondo di lavoro e di denaro, una vita di morti viventi e di concorrenza, di merci e di bastardi.
Visto che l’occasione fa il ladro, perché non uscire dalla nostra routine di carcerati, per cercare di restituire qualche colpo a quelli che ci schiacciano ogni giorno, magari facendo qualche incontro appassionante lungo il cammino? Perché non appropriarsi di questo momento, che vede sfilare masse di adesivi e di gente che passeggia dietro i sindacati, per cercare di esprimere e sperimentare altro? Per sputare la nostra rabbia scontrandoci con gli sbirri, spaccando vetrine, incendiando licei, saccheggiando uffici amministrativi o sedi di partiti, riprendendoci la strada, facendo casino a destra e a manca per bloccare e sabotare l’economia. Per esprimere della pratiche nuove e vivere degli incontri che rompano con l’esistente, condividere la rabbia contro la condizione comune cui siamo costretti, e tirarne fuori qualche buona idea. Come nel novembre 2005, durante le tre settimane infiammate che hanno dato a questo sistema merdoso un assaggio del futuro che gli riserviamo, come durante il movimento contro la legge sul CPE, quando l’agitazione studentesca ha cominciato ad essere sorpassata da ribelli di ogni genere, durante le lunghe manifestazioni selvagge punteggiate di scontri.
In queste ultime settimane, non tutti hanno rincorso il soggetto del momento: i lavoratori garantiti e sindacalizzati che chiedono alla meglio il mantenimento dello status quo e alla peggio l’apertura di negoziati per arredare la propria gabbia. In molti, studenti o meno, improvvisano cortei spontanei, cercano di modificare l’architettura carceraria delle grandi città, si auto-organizzano lontano dai picchetti, per non dare alcun potere ulteriore ad una piccola parte di movimento (operai delle raffinerie o spazzini), disertando i giochi tattici degli aspiranti potenti sul modo migliore per bloccare il paese, ma gettandosi nella battaglia così come sono, cioè semplicemente sé stessi: delle persone in rivolta , che non aspirano né ad influenzare il parlamento, né a migliorare l’esistente, né sicuramente a conservarlo in tutta la sua miseria salariale.
Certo, nei momenti in cui mettiamo queste parole su carta, l’intensitànon è più la stessa di quando diversi ingredienti sembravano potersi completare, un po’ dappertutto: blocchi dei trasporti e delle zone industriali, sommosse urbane e solidarietànella lotta, attacchi notturni di piccoli gruppi e manifestazioni selvagge di giorno, studenti e persone quasi in etàda pensione. Certo, non ci sono stati blocchi aggressivi come quelli di Barcellona durante lo sciopero generale del 29 settembre 2010, o manifestazioni incendiarie come in Grecia all’inizio dell’anno. Certo, le grandi mediazioni sindacali o politiche (come il disastro dell’anti-sarkozysmo) pesano ancora molto, gli incontri incominciano appena ad abbozzarsi e l’auto-organizzazione a cercarsi, la fantasia, nelle azioni collettive, non è molto diffusa, le prospettive radicali contro il lavoro e tutto quello che lo produce (e ciò che esso produce) non sono che ai primi balbettii. Ciononostante, nessuno può predire quello che succederàdomani, e ora si tratta di sbarazzarsi completamente di ogni calcolo politico, se vogliamo gettarci nell’incognita di un cambiamento reale. Con questa intuizione, poi: che un “movimento sociale†, finché resta legato ad una visione cittadinista della conflittualità, saràsempre troppo povero per poter esprimere le nostre rivolte.

Adesso, sinistra e destra ci dicono che la legge sulle pensioni è stata votata e che opporvisi vorrebbe dire sbeffeggiare quella sacrosanta democrazia che santifica la continuitàdel nostro sfruttamento e della nostra oppressione quotidiana per mezzo della legge. Ciononostante, molti se ne strafottono, perché non è soltanto contro questa riforma che si muovono.
Adesso i sindacati preparano un’altra ritirata, organizzando qualche altra giornata, ben lontana, per trascinare i piedi, sempre continuando a chiedere… di essere coinvolti nella riforma attraverso l’apertura di negoziati. Non fanno nemmeno più finta di crederci e si danno da fare per garantire la loro funzione poliziesca contro i “casseur†, i “sans-papiers†e tutti quelli che escono dai ranghi. In effetti, non fanno né più né meno che quello che hanno sempre fatto: gestire la forza lavoro accanto ai padroni e la contestazione accanto allo Stato.
Nonostante tutto, si deve constatare che l’entusiasmo di quello che abbiamo vissuto insieme per più di un mese porta ancora molti a non arrendersi.

Adesso, quindi, è più che mai il momento di gettarsi nella mischia senza seguire alcun ritmo, che sia esterno (il calendario di votazione della legge o delle sedute sindacali) o strategico (aiutare a bloccare i camion cisterna, ma soprattutto senza toccare gli oleodotti). Non dobbiamo avere paura di tentare tutto quello che vogliamo. Se difendiamo mezzi come il blocco e il sabotaggio, è per interrompere la normalità, rompere i luoghi comuni, liberare spazi affinché ciascuno possa essere un po’ di più sé stesso. È per incontrarci, direttamente o indirettamente, al di làdelle categorie, su basi antiautoritarie che rifiutino le mediazioni, i ruoli e le gerarchie, in una tensione verso qualche cosa d’altro: la sovversione dei rapporti sociali e la distruzione di ogni dominio.

(29 ottobre 2010)