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Lettera sullo specialismo

(Non mettere in gioco la propria sorte se non si e’ disposti a giocare con tutte le proprie possibilità)

martedì 21 luglio 2009

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Oggi pensavo a quanto sia triste l’abitudine di definirsi a partire da una fra le tante attivitàin cui ci realizziamo, come se fosse quella attivitàsoltanto ciò che qualifica la totalitàdella nostra esistenza. Tutto questo ricorda fin troppo da vicino le separazioni che lo Stato e l’economia infliggono alle nostre vite. Prendi, ad esempio, il lavoro. La riproduzione delle condizioni di esistenza (il fatto, cio", di adoperarsi per mangiare, dormire, stare al caldo, eccetera) dovrebbe essere tutt’uno con la discussione, con il gioco, con la continua trasformazione dell’ambiente, con i rapporti amorosi, con il conflitto, in breve con le mille espressioni della nostra unicità. Invece, non solo il lavoro e’ diventato il centro di ogni preoccupazione, ma, forte della sua indipendenza, esso impone la propria misura anche al cosiddetto tempo libero, ai divertimenti, agli incontri, alla riflessione — insomma, si presenta come la misura della vita stessa. Infatti, quasi tutti gli individui si definiscono, perché tale e’ la loro identitàsociale, a partire dal lavoro che svolgono, cioe’ a partire dalla loro miseria.

Mi riferisco in particolare al riflesso che la frammentazione imposta dal potere alla vita di ciascuno ha sulla teoria e sulla pratica dei sovversivi. Prendi, ad esempio, le armi. Che senza armi una rivoluzione sia impossibile mi sembra chiaro, ma e’ altrettanto chiaro che le armi non bastano. Anzi, credo che più rivoluzionario e’ un cambiamento e meno lo scontro armato diventa la sua misura. Più ampia, cosciente e gioiosa e’ la trasformazione e maggiore e’ la condizione di non ritorno che si crea rispetto al passato. Se la sovversione e’ portata in tutti gli ambiti dell’esistenza, la difesa armata della propria possibilitàdi distruggere diventa tutt’uno con la creazione di nuovi rapporti e di nuovi ambienti. Allora si e’ tutti armati. Diversamente, nascono gli specialisti — i futuri padroni o burocrati — che “difendono†mentre gli altri demoliscono e ricostruiscono... la propria schiavitù.

Tanto più che non sulle sconfitte “militari†, bensì sullo spegnersi dell’azione autonoma e dell’entusiasmo, soffocati dalle dure quanto false necessitàdella transizione (il sacrificio prima della felicitànel comunismo, l’obbedienza al potere prima della libertànell’anarchia), si e’ sempre innescato il processo di riflusso e, di conseguenza, il trionfo del vecchio mondo. E proprio in questo riflusso si sono sempre giocate, storicamente, le repressioni più brutali, mai nel momento dell’insurrezione diffusa e incontenibile. Paradossalmente, un anarchico dovrebbe spingere, armi in pugno, perché le armi servano il meno possibile, e perché non siano mai separate dall’insieme delle rivolte. Mi domando allora cosa vorràmai dire “Lotta armata†. Lo capisco se a parlarne e’ un leninista, che della rivoluzione non possiede che la misera controfigura — il colpo di Stato, la presa del Palazzo d’Inverno. Ma un antiautoritario? Forse può avere il senso, di fronte al generale rifiuto di attaccare lo Stato e il capitale, di sottolineare l’inoffensivitàdi ogni contestazione parziale e l’illusorietàdi una liberazione che vuole abolire il dominio semplicemente “delegittimandolo†, oppure autogestendo il proprio “altrove†. Può essere. Ma se c’e’ qualcosa di parziale sono proprio le mitologie guerrigliere, con tutto il loro corredo di slogan, di ideologia e di separazioni gerarchiche. Inoffensivi per il potere, poi, si e’ anche quando, accettando di percorrere le strade a lui note, si contribuisce ad impedire tutte quelle che non lo sono. Quanto all’illusione, come altro chiamare la tesi secondo cui la vita quotidiana — con i suoi ruoli, i suoi obblighi e la sua passività— si critica attraverso l’organizzazione armata? La ricorderai senz’altro, la tesi: il tentativo era quello di fornire un’alternativa libertaria e non avanguardista alle organizzazioni combattenti staliniste. Quanto ai risultati, erano giàscritti nei metodi. Come se per attaccare lo Stato e il capitale ci fosse bisogno di sigle, di rivendicazioni noiose, di comunicati illeggibili e tutto il resto. E ancora si sente parlare di “Lotta armata†e di organizzazioni “combattenti†. Ricordare — in mezzo a tanta amnesia interessata — che anche le armi fanno parte della lotta non può che essere positivo. Ma questo cosa significa? Che non dovremmo più pubblicare giornali, fare dibattiti, invitare pubblicamente all’eliminazione del Papa, tirare uova ai giudici o yogurt ai giornalisti, saccheggiare durante i cortei, occupare gli spazi o bloccare la redazione di un qualsiasi quotidiano? Oppure significa — proprio come sogna qualche magistrato — che si dovrebbe lasciare questo “livello†ad alcuni perché altri possano diventare gli specialisti degli “attacchi†? Per di più con l’intenzione di risparmiare così inutili coinvolgimenti di tutto il movimento per le azioni di alcuni, come se non fossero da sempre le separazioni a preparare il migliore terreno alla repressione.

Occorrerebbe liberare le pratiche di attacco da ogni fraseologia “combattente†e da ogni modello leninista, farle diventare l’incontro reale di tutte le rivolte. Questo e’ il modo migliore per impedire il loro affossamento. Tanto più che gli sfruttati stessi passano talvolta all’attacco, senza aspettare le indicazioni di una qualche organizzazione. L’insoddisfazione si arma contro lo spettacolo terrorista del potere, talvolta alimentando lo spettacolo. E non dovrebbero essere gli anarchici a disarmarla. Per nascondere ogni segno d’insoddisfazione, per dimostrare che nessuno — tranne gli ultimi “terroristi†— si ribella alla democrazia, lo Stato cerca di inventarsi un’organizzazione anarchica clandestina a cui attribuire, per negarle, le mille espressioni di una rivolta che oltrepassa ogni “banda†, armata o meno che sia. Così si amministra il silenzio e il consenso. Proprio perché i padroni vorrebbero rinchiudere in una struttura militare le nostre attività, per dividerle in diversi “livelli†, bisogna allargarle e unirle il più possibile in un progetto rivoluzionario che superi per eccesso ogni mitologia armata. Ognuno con le sue attitudini e i suoi desideri. Ancora, portare la sovversione in ogni ambito dell’esistenza. L’arma che contiene tutte le armi e’ la volontàdi vivere con tutte le proprie possibilità, e subito.

E della tesi secondo cui bisogna, rivendicando le proprie azioni, prendersi le proprie responsabilitànei confronti del potere? Che le sigle pronte da appiccicare agli individui scomodi facciano la felicitàdella polizia, mi sembra evidente. La responsabilità, poi, perché non sia una menzogna o un pretesto per il controllo, deve essere individuale. Ognuno e’ responsabile di fronte a se stesso delle proprie azioni. Il riconoscimento reciproco delle responsabilitàavviene solo su un piano di reciprocità. Nessuna responsabilità, quindi, nei confronti di chi, sfruttando, si pone contro ogni reciprocità. Nei confronti dell’autorità, nessun terreno — lo scontro politico o militare — di riconoscimento comune, ma solo inimicizia. Cosa significa allora, prendersi le proprie responsabilitàpolitiche di fronte al potere? Forse vuol dire — in perfetta osservanza leninista — essere da esso riconosciuti in quanto organizzazione? Qui finisce la responsabilitàe comincia la sua controfigura collettiva, lo spettacolo della guerra sociale.

Il democratico di sinistra, rispettoso delle leggi, e’ il primo a innamorarsi dell’iconografia guerrigliera (soprattutto se esotica), e il guerrigliero " il primo, una volta posate le armi, a ritornare, lentamente e da sinistra, alla legge e alla democrazia. Da questo punto di vista, e’ proprio chi dichiara chiusa l’ipotesi insurrezionale in tutta la sua portata, che, aderendo più o meno direttamente al riformismo, contribuisce a rafforzare il falso bisogno dell’organizzazione combattente — proiezione rovesciata dell’impotenza politica. I militanti di sinistra sono capaci di utilizzare anche il subcomandante Marcos per legittimare, attraverso il gioco dei rimandi, il proprio ruolo contro la destra. Il subcomandante, dal canto suo, non aspetta altro che poter agire democraticamente per la propria patria.

Lasciando perdere i leninisti più o meno modernizzati, veniamo all’ambito anarchico. Anche qui, tra gli specialisti dei dibattiti, quante strette al cuore per il “Chiapas insorto†, purché dalle nostre parti di insurrezione — questa malattia infantile dell’anarchismo — non si parli mai... E purché si prendano le debite distanze da chi continua a parlarne.

Una volta un amico mi ha detto, al termine di una riunione sugli spazi autogestiti, che negli anni settanta c’era la convinzione che chi sparava aveva, per ciò stesso, ragione, mentre adesso sembra che la ragione si sia trasferita armi e bagagli dalla parte di chi occupa. Specialismi intercambiabili. Occupare ", di per sé, un metodo di lotta importante, che contiene in nuce la possibilitàstessa di ogni sovvertimento: la risolutezza di allungare le mani e di prendersi i propri spazi. Questo non vuol dire, evidentemente, che tale metodo possa da solo farla finita con un mondo di costrizioni e di merci. Sono, come sempre, le idee e i desideri di chi lo applica a fare la differenza. Se qualcuno negli spazi occupati cerca la garanzia di sopravvivere alla meno peggio, ve la trova, come può trovarvi — mettendo in gioco l’occupazione stessa — il punto di partenza per le più smisurate pretese. Lo stesso vale per i libri, gli esplosivi o gli amori. Ciò che più importa e’ non porre limiti — né in un senso né nell’altro — mutuati dai criteri dominanti (la legge, il numero, la felicitàdi riuscita).

Personalmente non conosco “gli insurrezionalisti†, io conosco solo individui che sostengono — ognuno con le proprie ragioni e a proprio modo — la necessitàdell’insurrezione. Necessità, come diceva un nostro amico, determinata dal fatto che all’interno della presente societàe’ possibile soltanto proporre modi diversi di rispondere alle questioni esistenti (magari con una democrazia diretta, con comitati cittadini, eccetera), mentre con l’insurrezione si cambiano le domande stesse.

E se si rifiuta ogni specializzazione, perché definirsi “squatters†? Perché definirsi attraverso una pratica soltanto? Forse perché di questa pratica si può parlare pubblicamente, perché può diffondersi più di altre e perché implica una dimensione collettiva? Criteri miseri, a mio avviso. Anche di sabotaggio si può parlare pubblicamente, dal momento che non c’" alcun bisogno di dire "io ho fatto questo" o "tizio ha fatto quest’altro" per discutere di un problema. Anche un sabotaggio può essere realizzato da più individui assieme, ma se a metterlo in pratica fosse solo un individuo, non per questo l’azione perderebbe il proprio significato. Quanto alla capacitàdi diffusione, mi sembra che essa stessa dovrebbe costituire un argomento di riflessione, non certo un’unitàdi misura. Se qualcuno, dal momento che ama rompere le vetrine delle banche e dei centri commerciali, ti dicesse "ciao, io sono un casseur", ti metteresti a ridere. Ugualmente ridicolo sarebbe se un sovversivo si definisse “scrittore†perché non disdegna di pubblicare qualche libro o articolo. Io non ho mai udito un anarchico presentarsi come “sabotatore†, in caso contrario avrei pensato di avere di fronte un cretino. Inoltre, chi ha mai criticato l’occupazione in quanto tale? Chi ha mai detto che la dinamite " “più rivoluzionaria†del piede di porco? Fare della lotta, in ogni sua forma, una totalitàindivisibile — questo " il punto. Direi non della lotta, ma della mia vita. Senza “propaganda†e “armi della critica†, “lotta armata†e “critica delle armi†, “vita quotidiana†e “rivoluzione†, “individuo†e “organizzazione†, “autogestione†e “azione diretta†, e via incasellando.

Ma, senza proposte specifiche (lotta sindacale, occupazione degli spazi o altro), come creare un coinvolgimento più ampio? Le proposte sono possibili, anche se bisogna intendersi su cosa e a chi. Ma tali proposte, o sono momenti di una critica teorica e pratica globale, oppure sono... proposte accettate.

Tuttavia non tutto e’ da distruggere. Non si deve distruggere la possibilitàdella distruzione. Non e’ un gioco di parole. La distruzione va pensata, desiderata, progettata e organizzata. Per fare questo nessun contributo utile, teorico e pratico, va sprecato, nessun metodo va abbandonato. Non e’ certo con i bei proclami di sovversione che si può andare all’assalto del mondo. Così si diventa soltanto i pensionati della rivolta. La possibilitàdella distruzione e’ tutta da inventare, e non si può dire che gli sforzi per farlo siano molti. Spesso, con l’alibi che non si vuole costruire alcunché, si va poco a fondo con i ragionamenti e, altrettanto spesso, manca la volontàdi essere spregiudicati e pronti come le proprie idee, di non rimanere in balìa degli avvenimenti. La capacità, insomma, di saper scegliere l’occasione. "Nel cuore dell’occasione, ogni cosa " un’arma per l’uomo la cui volontànon sia disarmata".

Torno a dire: tutto assieme, o niente. Quando si pretende di sovvertire il mondo solo con la discussione, o con le occupazioni, o con i libri, o con le armi, si finisce per voler dirigere le assemblee, per occupare le baracche, per scrivere male o per sparare peggio. Il fatto e’ che a ripetere queste banalitàche dovrebbero essere la base per cominciare a discutere davvero, si diventa noiosi come gli specialisti della ripetizione. I dialoghi logori si cambiano cambiando le situazioni.

Massimo Passamani.
Canenero N°44, settimanale anarchico - 10 gennaio 1997.